martedì 30 dicembre 2014

Tutto il bello della calligrafia

E' bello ricevere in dono un piccolo set per scrivere come si faceva in epoche lontane. Un set completo perfino di ceralacca per suggellare una missiva. Una boccetta d'inchiostro, diverse punte da applicare alla penna, tampone e carta sopraffina. 
La calligrafia è un'arte pressoché dimenticata, una di quelle belle cose che richiede tempo e dedizione, pazienza e passione, di conseguenza destinata in questo nostro tempo a ritagliarsi una timida nicchia da irriducibili (...sentirsi dire che vedendo il set in bella mostra in una vetrina qualcuno ha pensato esattamente a te, meglio ancora se si tratta di un bambino particolarmente sensibile).
Non v'è stata civiltà del mondo antico che non abbia fatto di questa pratica un proprio fiore all'occhiello, dai greci agli egizi, dagli arabi alle splendide prove di calligrafia dell'estremo Oriente. A pieno titolo nel patrimonio umano e culturale mondiale. 
Calligrafia e arte della spada si somigliano. Nascono dall'armonia tra la forza del polso e il sentimento del cuore. (Anonimo)
Se ci si addentra anche solo un po' in questo universo, si scopre che esistono associazioni e circoli culturali che promuovono la conoscenza di questa pratica, organizzando corsi e convegni. Se tanti storcono il naso dinanzi a ciò, ritenendo che in epoca di touchscreen sia anacronistico parlarne, è sacrosanto che si porti avanti l'idea che i più giovani possano ancora essere educati alla bella scrittura. Attraverso lo studio dei caratteri di un tempo e della loro riproduzione, si insegna qualcosa di fondamentale, oggi sempre più alla deriva: il gusto per il dettaglio, per la lentezza, assieme alla riscoperta del creare con le proprie mani. E se vogliamo essere più diretti: si può insegnare a impugnare una penna o a distinguere lo stampatello dal corsivo, aspetti della nostra comunicazione scritta che oggi sempre più sono trascurati perfino dagli insegnanti.
                                                                                                                                                             Luz

martedì 18 novembre 2014

Tre Cuori


Tre fiammiferi accesi / Uno per uno nella notte / Il primo per vederti il viso / Il secondo per vederti gli occhi / L'ultimo per vedere la tua bocca                                                     
Dopo aver visto il film Tre cuori per quella strana alchimia che sono le associazioni di idee mi frullava nella testa questa poesia di Jacques Prévert. Poi cercando di dar voce all'emozione intensa che questo film mi ha suscitato ho capito il perchè: il primo è il viso della mamma delle due altre donne protagoniste, Catherine Deneuve, dai molti sguardi straordinariamente comunicativi che non hanno bisogno di parole; il secondo sono gli occhi di Charlotte Gainsbourg, Sylvie, disperati, teneri, incapaci di mentire; l'ultimo è l'amore sensuale represso, condizionato e fulminante della sorella di Sylvie, Chiara Mastroianni. Eccolo "il cuore" di questo struggente e commovente film! Tre donne, tre cuori, tre fiammiferi nella notte con la consapevolezza dell'amore che le unisce, un amore unico, viscerale, ma pudico nella sua fragilità e contraddizione. Questo è un film che commuove per la sua estrema sincerità, ti obbliga a confrontarti con te stesso. Il destino di ognuno che si interseca con quello dell'altro, ineluttabile, fatale e senza pietà. Ma è tenero nel racconto, ti stupisce per l'eleganza e il garbo e non è facile raccontare i sentimenti e le loro sfumature senza scivolare nel pietismo. Direi un film femminista, se tale termine, oggigiorno non fosse già desueto, perchè nonostante tutto sono le donne le più forti nella loro fragilità. Si abbandonano con passione e istinto. Non ho dimenticato Marc, il protagonista della storia, Benoit Poelvoorde. Lui "ama" con la stessa intensità l'una e l'altra ma brama ciò che non ha, ricordando, desidera ciò che ha dimenticando. Ottima interpretazione di un personaggio metodico, ispettore del fisco, che appare debole, incerto ma lui Ama! E' l'uomo che ama le donne forse è questa la sua debolezza. L'epilogo è mozzafiato come il ritmo che si fa incalzante e travolgente man mano che la storia si dipana. Da vedere e per me, che odio il replay, da rivedere. E siccome amo le poesie di Prèvert mi dedico, perchè anche a me piace guardare dov'ero, ogni tanto "Les Feuilles Mortes" cantata da Yves Montand... Dunque "Tre cuori"..."Tre fiammiferi accesi"...Yves Montand....che vita meravigliosa!                              
Cris                                                            

domenica 2 novembre 2014

Il giovane favoloso

Un film sulla vita di Giacomo Leopardi sembrerebbe istintivamente impensabile. Come si fa a raccontare un genio, un animo complesso, dolente e infinitamente infelice, la sua epoca così singolare? Raccontare sulla pellicola la storia del più strordinario genio della nostra Letteratura pare non fosse idea nuova. Fu ventilata questa possibilità molti anni fa, una decina credo, con Sergio Rubini nel ruolo del protagonista. Produzione che poi non fu mai realizzata. La sfida viene raccolta da Mario Martone, in una produzione che porta la sua firma nello stile e nel rigore del racconto.
Questo è un film che emoziona, uno di quelli che alla fine ci lascia attoniti e incapaci di lasciare la sala del cinema, mentre quella colonna sonora dal ritmo moderno descrive l'ultimo canto di Giacomo, il testamento poetico che declama dinanzi al cielo notturno di Napoli, e lui ancora una volta come sgomento dinanzi al creato, percepito fin dalla sua cosmogonia, come se la sua mente si dilatasse un'ultima volta dinanzi a spazi siderali che egli percepisce fin dalla sua adolescenza.
Elio Germano, il suo interprete, vince pienamente la sua prova più difficile finora affrontata. Credibile, struggente, tenero, dolente, traspira quel dolore ineffabile che Leopardi ha sublimato in versi di infinita e ineguagliabile bellezza, oltre che in tante opere scientifiche e filosofiche. Il rigore di Martone è assoluto, la storia del giovane Leopardi è un racconto che in tutta la prima parte ha come scenario la Recanati amata e odiata, gli ambienti austeri della casa, l'ordine e la dedizione alla biblioteca, centinaia e migliaia di fogli scritti minuziosamente, le solitarie passeggiate sul colle dal quale immaginare scenari nuovi, la finestra nella quale è incorniciata una giovane Teresa Fattorini destinata a morte precoce. Su tutto il dolore di un giovanissimo Leopardi che subisce l'austerità della madre e l'ossessivo attaccamento paterno, mentre una malattia deformante affligge i suoi giorni e paradossalmente gli dona un osservatorio personale dal quale percepire il destino degli uomini. 

...io non ho bisogno di stima, di gloria o di altre cose simili. Io ho bisogno di amore, di entusiasmo, di fuoco, di vita.

Giacomo è come assetato di qualcosa di cui percepisce l'esistenza e allo stesso tempo sente che a lui non è destinato. Il dolore si alimenta di un'insoddisfazione profonda, pertanto dilaga e segna irrimediabilmente le sue relazioni col mondo che incontrerà. Infatti, nella seconda parte, Leopardi ha acquisito la sua libertà, vive a Firenze, poi Roma, poi Napoli, quel mondo che aveva idealizzato e dinanzi al quale resta deluso, nell'amore non condiviso dall'aristocratica Targioni Tozzetti, nella constatazione di non appartenere a una società che inneggia a "magnifiche sorti e progressive" dalle quali si sente a distanza, nell'unico conforto dell'amicizia di Antonio Ranieri. Nel mutare degli scenari non muta Giacomo, che precocemente era giunto al Vero, al Dubbio come suo assoluto, e al quale non resta che porsi come spettatore dinanzi alle miserie degli uomini, compatirli e vivere le sue altissime intuizioni mentre la storia si fa dinanzi ai suoi occhi.
Ogni delusione è pertanto linfa vitale dentro Leopardi, che si contorce fino alla paralisi in uno spasmo che è già morte, ultimo viaggio che Silvia additava nella chiusa della canzone a lei intitolata. Gli ultimi giorni di Leopardi sono lenti e riflessivi, è adulto ma in lui non ha mai smesso di vivere il fanciullo recanatese che si dibatteva nel suo furore intellettuale. Se dovessi immaginare un centro assoluto di questa mirabile pellicola, esso si concretizzerebbe nella frase che tuona dinanzi al padre Monaldo: Io odio questa prudenza che rende impossibile ogni grande lezione, padre!!! Qualcosa che rende Giacomo Leopardi non più lontano nel tempo, nella forma, nell'intelletto, ma straordinariamente vicino, attuale, in quell'anelito di vita che accomuna tutti i grandi animi che sanno percepire la Bellezza e farsene vivi assertori. 
Luz


domenica 12 ottobre 2014

Preraffaelliti

L'esperienza di visitare una mostra di Preraffaelliti rivela la totale impossibilità di riprodurre queste opere in fotografia o in altra forma di rappresentazione. Le opere di Millais, Waterhouse, Dante Gabriel Rossetti, si devono cercare nei musei che le conservano oppure accorrere ai musei che le espongono in determinati periodi. 
Ho avuto il piacere di guardare da vicino la pittura preraffaellita a Torino, lo scorso aprile, e ne sono uscita con la mente piena di forme e colori, la sensazione di un'arte che ostenta autocompiacimento e travolge perchè bella in modo prorompente, certa di ricreare un passato ormai perduto, orgogliosa di afferrarne il ricordo e la forza, superba nel darsi un nome che è un prendere le distanze da tanta arte ritenuta "accademica". 

Travolgono i soggetti di questa corrente, che vanno dal Medioevo a Shakespeare, a paesaggi immersi nelle nebbie del tempo, fino a ritratti di donne la cui femminilità esplode e conserva allo stesso tempo una tenera fragilità. Se a metà dell'Ottocento suscitarono anche aspre critiche, oggi questi artisti possono dirsi pienamente immersi in un'arte universale e trasversalmente riconosciuta come un alto esempio di arte pura. 
Luz

lunedì 22 settembre 2014

Falene

Definirsi un'attrice non è facile. Probabilmente è una parola troppo complessa e importante perchè ci si possa permettere questa velleità. Mi definisco tale quando interpreto in modo soddisfacente un personaggio, quando penso di avere raggiunto un certo livello di credibilità. Praticare l'arte drammatica a volte può essere perfino una profanazione, pur consapevoli di esserlo a un buon livello non professionale, giacchè quando non si arriva da una formazione accademica possiamo fare agire solo un istinto, uno slancio innato, una capacità. Non si può fare del buon teatro rispondendo a un'esigenza di puro divertimento, poichè il palcoscenico richiede studio e sacrificio. Mi piace pensare di lasciare il puro divertimento alle troppo numerose compagnie teatrali che fanno pura amatorialità, divertendosi e divertendo probabilmente un parterre non particolarmente raffinato. Ma tant'è. Il teatro è forse anche arte puramente popolare, fatta dal popolo per il popolo, a tutti i livelli possibili.
Ho scritto un anno fa una specie di diario di viaggio, durante un viaggio fatto su terreno impervio, un passo dopo l'altro. Ho raccolto la sfida di offrire al pubblico una Virginia Woolf abbastanza credibile, raccontandone le spigolosità e le cadute, concedendomi il lusso di ripercorrerne gli ultimi fragili anni, fino alla morte. Lo pubblico qui, in questo spazio di scrittura pressoché quotidiana, perchè ne diventi parte e sia momento di riflessione per chi vorrà leggere.
Luz

24 maggio 2013
Oggi comincia a cogliermi quella vena creativa che non mi fa stare ferma un attimo, che mi fa vivere una sorta di frenesia instancabile.
Sto per iniziare a lavorare al più grande e bel progetto teatrale che abbia mai affrontato. Una di quelle cose difficili e travolgenti, singolari e imperdibili. Settimane orsono avevo convocato due amiche attrici perchè avevo il desiderio di mettere in scena una rappresentazione a tre. Solo che non sapevo cosa. In questo momento della mia vita, ho bisogno di quello scandaglio nella psiche, di sperimentare, vivere esperienze nuove e indelebili. Il premio di regia che vinsi 2 anni fa, non ha forse dimostrato che c'è in me una forma di drammatizzazione che riesce a trascinare un intero pubblico? Rappresentai il dolore, e con questo vinsi. Le mie amiche attrici ovviamente hanno aderito con entusiasmo, affidandosi quanto alla mia scelta del cosa fare, che è arrivata come un fulmine proprio due giorni fa, e pensandoci e ripensandoci, so adesso che è questo che farò.
Avete mai visto il film "The hours", tratto da un celebre romanzo di Cunningham, poi rappresentato come produzione cinematografica con titolo omonimo? Ecco cosa mi attende. La prova più grande di tutte, quella altissima e difficile. Quella che registicamente deve essere vincente. E io sarò Virginia Woolf. Dovrò studiare a fondo questo personaggio straordinario della Letteratura novecentesca, approfondirne contenuti e conoscenza, studiarne ogni passaggio biografico. Sarà un'esperienza che voglio vivere al massimo dell'impegno e della resa scenica.

28 giugno 2013
Ho rilevato tutto il film, trascritto parola per parola. Poi su questa base ho cominciato il mio "trattamento", riferendomi anche al capitale umano con cui condividerò questa esperienza in dicembre.
L'adattamento non è difficile, perchè ho deciso di mantenere alcuni momenti nodali della storia, e tutt'al più dovrò solo intessere alcune piccole trame attorno a questi.
Il rischio, il solo rischio, è quello di non arrivare al pubblico. Quando si porta un lavoro drammatico c'è sempre quel rischio di annoiare, non raccontare a dovere quegli stati d'animo. Mi capita di pensare in questo frangente alla differenza enorme fra comico e drammatico. Nel comico non c'è nessun approfodimento interiore, fai ridere facilmente, ti inventi una fissazione, un tic, moduli la voce in modo grottesco e il gioco è fatto. Nel drammatico vige l'esatto opposto. Le voci sono la cosa più difficile, perchè le voci che raccontano il dramma interiore devono, nel loro sforzo di credibilità, essere all'altezza di quegli stati d'animo. Sono insomma all'ultima fase di scrittura. Le prove sono ufficialmente iniziate, sarà un bel training.

30 giugno 2013
Si fluidificano idee ed emozioni in me molto intense. Questo progetto mi sta prendendo in modo totale. Vivo delle coincidenze al limite della follia. Suggestione? Il Caso? Non saprei. Ma mi piace pensare che qualcosa mi stia spingendo verso questo racconto, un'energia vitale che ha in sè la sovrumana creatività woolfiana, la profonda sensibilità di donna, lo spettro della morte quale fonte nella quale lei deve gettarsi come destino salvifico. Mi chiedo perchè senta questa esigenza, e mi ritrovo immensamente in quelle sofferte parole della Virginia che intende prendere un treno senza dire nulla a Leonard. Rivedo in Leonard (straordinario l'attore che lo interpreta nel film) lo stesso sguardo dell'uomo che io stessa ho sposato, quando la mia disperazione era totale, lo sconforto mi assaliva, e l'angoscia era forte.
Virginia soffre immensamente perchè è connaturato il lei il germe della follia, che la porta verso una creatività che la salva ogni qual volta che si getta su un nuovo progetto, io soffrivo perchè dinanzi a me s'era aperto il baratro e il crollo di tutti i miei progetti e delle certezze, completamente sbandata in un sentimento che non aveva ragione di esistere, sottoposta alla volubilità e alla superficialità di un oggetto d'amore immerito.
Vivo un momento in cui capisco bene che, se c'è in me un talento nel racconto teatrale, ebbene questo talento mi domanda di mettere questo stato d'animo in scena, per esorcizzarlo, ucciderlo e soffocarlo per sempre.
Intendo fare di questa interpretazione il mio capolavoro. E lo sarà.
Intanto, Virginia mi "parla" attraverso i suoi scritti. Stamani ho comprato "Flush", forse il suo romanzo ironico. E non vedo l'ora di gettarmi nei bellissimi "Orlando" e "Una stanza tutta per sè". Mi intenerisce nello stile sveglio e attento, ma di questo parlerò in un altra discussione.
Ieri ho visto il Piccolo teatro dei sassi, dove la mia Virginia parlerà per la prima volta il prossimo dicembre. E la vedevo aggirarsi, di spalle, sullo sfondo dei sassi grezzi della sala. La inseguo, la voglio in me, e voglio che parli attraverso me. Devo tessere attorno alla trama del film anche altro, molto altro. Devo spostare al centro della storia questo personaggio straordinario e indimenticabile.

5 luglio 2013
Non esiste una buona Compagnia dove non c'è non solo affiatamento (quello è comunissimo) ma anche e soprattutto affinità, profondità di relazioni, possibilità di costruzione di un rapporto di fiducia e di sostegno reciproco. Il mio teatro è da sempre così. La maggior parte dei registi che mettono insieme delle Compagnie, sono l'esatto opposto. Ne ho conosciuti alcuni. Io lavoro su una componente affettiva che per me è imprescindibile. E lo dico proprio perchè ho fatto esperienze in altri ambiti. Per carità, atmosfere scherzose, progresso nelle prove, ma poi tutto finisce lì, attorno all'interesse verso un certo spettacolo, come se il percorso di raggiungimento non contasse poi nulla o pochissimo. Io tendo invece a percepire lo spettacolo come l'approdo di un viaggio, durante il quale si instaurano delle relazioni d'amicizia anche molto importanti. Nel tempo, gioco-forza si è attuata una "scrematura" di persone che non erano in linea con le mie idee. Diversi se ne sono andati, in cerca di realtà più "facili" e meno impegnative da molti punti di vista. Poi c'è uno zoccolo duro di attori e attrici che assomigliano a dei mercenari oppure sono quelli di un'esperienza e via. Non si fermano mai in nessun posto, fanno con te un'esperienza e poi svaniscono nel nulla (alcuni neanche rispondo più alle email o ai messaggi, e magari hai trascorso con loro un anno di lavoro).
Insomma, nell'universo variegato del teatro, anche non di professionisti, le personalità sono tante e multiformi. Ma per esperienze così, come questa su cui lavoriamo, non occorrono persone superficiali nè "mercenari". 

16 dicembre 2013
Ieri sera è accaduta una di quelle cose che non sai se attribuire alla casualità o al destino. Insomma, spettacolo PERFETTO. Tutti meravigliosamente in sintonia, nessuna sbavatura, resa massima, e di conseguenza partecipazione massima degli spettatori, che ieri pomeriggio hanno riempito il Piccolo Teatro dei Sassi.
Virginia ha vibrato in me, profondamente e direttamente, il che ha creato una grande empatia con i presenti, in scena e fuori. Credo di avere assistito a quel miracolo per il quale tutto riesce bene perchè tutti lavorano con la stessa intensità. E' stato meraviglioso.
Gli applausi a scena aperta sono stati tre. Più un lungo applauso finale che ci ha sorpreso. Amici e perfetti sconosciuti ci hanno stretto la mano commossi, complimentandosi per tutto. E ciò che è più importante, mi sono ritrovata fra il pubblico una mia vecchia conoscenza, un regista col quale ho avuto i miei inizi, raffinatissimo e molto esigente, che ogni volta che è stato presente ad un mio spettacolo con moltà sincerità mi ha detto cosa non funzionasse e cosa sì. Ebbene: mi si è avvicinato, mi ha preso le mani, e mi ha detto che era perfetto, e che perfino mi invidia un lavoro come questo.
Vi lascio immaginare quanto fossi estasiata, conoscendo quanto sia puntiglioso, diretto, a volte incontentabile. "Questo è teatro, Luana". Credo sia stato il momento più bello artisticamente parlando, solo secondo al momento in cui fu annunciato il mio nome due anni fa come vincitrice del Premio di Regia della Fita. 
Falene è una delle esperienze più belle e forti della mia vita finora trascorsa. 

27 febbraio 2014
I prossimi due fine settimana saremo nuovamente in scena. Lo chiamo "debutto" perché ho ampliato il copione, è venuto fuori un lavoro interessante giacché la Woolf è al centro dell'azione scenica, interagisce maggiormente e in questo modo lo spettatore ha una visione più completa della scrittrice.
Ho scritto sulla locandina "serata speciale per l'8 marzo, Festa della donna" perché sto ideando il modo di coinvolgere il pubblico, e sentito il parere di alcune persone che mi seguono da sempre e sono fidatissime perché di consueto frequentano i teatri, l'idea parrebbe molto buona. Ultimamente mi è stato detto che il mio massimo talento artistico si esprime molto più nei lavori drammatici che in quelli comici. Ma questo forse era intuibile, giacché anni fa vinsi il Premio di Regia Fita proprio con una proposta drammatica.
Questa mia Virginia già in dicembre arrivava al pubblico, ma adesso che il testo si arricchisce anche di riferimenti alla donna di oggi. Mi stanno accadendo delle coincidenze pazzesche in merito. Roba che a raccontarla non ci si crede. Virginia presenta la possibilità di un riscatto. E mai come adesso sento mio questo personaggio. Mi sento talmente bene che stento a credere che stia accadendo proprio a me.
Ho inserito nel testo brani tratti dalle sue lettere, dal saggio Una stanza tutta per sé, dai romanzi. La mia Virginia mette in scena il suo pensiero di una antesignana del migliore femminismo. Non quello dispettoso nei riguardi dell'universo maschile, ma quello che chiede ed esige anzi la possibilità di equiparare la forza e intelligenza degli uomini che possiedono queste qualità alla forza e intelligenza delle donne che le possiedono.
Ho inserito un piccolo monologo sulla "mente androgina", è straordinario.
Sono consapevole di essermi infilata in un progetto di grandissima difficoltà per quanto riguarda la resa scenica. Ma come sempre accade nel teatro vero, puoi incarnare un personaggio (in questo caso "persona") solo se senti dentro di te quell'esperienza che ti permette di essere vera e credibile.
Sabato pomeriggio, per altro, sarò intervistata in una radio locale della capitale (cosa che mi mette una certa ansia ma so già che saprò affrontarla col mio piglio dialettico/ironico) per presentare il progetto, e quindi dovrò cercare di fare arrivare i contenuti e le intenzioni di questo lavoro.

2 marzo 2014
La mia intervista radiofonica è durata 13 minuti e a detta di tutti è andata benissimo. E' difficile parlare in radio. Utilizzare la sola propria voce, nessun testo scritto da cui leggere, ma semplicemente trovare le parole adatte alle domande che sono fatte, senza sbagliare né fare spiacevoli figure. Difficilissimo! Ma ce l'ho fatta. E poi... ieri ho volato nel cielo di Virginia, per la prima volta su un palcoscenico che è molto diverso dal contesto del Piccolo Teatro dei Sassi. Mi sono cambiata d'abito e pettinatura. Ora l'immagine è decisamente più vicina al lei. E che forza ho sentito, che profonda forza dentro di me, in ogni gesto, ogni parola... In prima fila c'era Mariana*. Non anticipo nulla di ciò che ha detto a me dopo lo spettacolo.
Questo ruolo è inspiegabilmente bello. Mai avevo provato un'emozione e una forza così trainante. Mai. Il solo rischio è che il tenermi testa diventa questa volta un'impresa per chi condivide con me il palcoscenico. Non ho altro per ora da aggiungere. Fra poche ore vestirò nuovamente quei panni e volerò in quel cielo. A presto...
L'interpretazione di Luana è stata , a mio avviso, formidabile. Talmente intensa che avrei preferito veder sul palco solo lei. Mentre lei era di un'intensità coinvolgente, gli altri personaggi erano meno all'altezza. E' pur vero che il testo era molto impegnativo. 
L'inizio è stato uno molto sorprendente: palcoscenico vuoto, gli oggetti di arredamento scelti a dovere, luce giusta e, tutto ad un tratto,  la lettera di Virginia a Leonard letta da Luana. Timbro perfetto. Profondo, sincero, limpido e diretto nonostante la confusione presente nella testa di Virginia.
L'atto è iniziato con il finale e l'ho trovato geniale.
Luana nel ruolo di Virginia è stata molto, ma molto brava. "Intensa" penso sia la parola chiave della sua prestazione. Conoscendo Virginia Woolf e il film "The Hours" posso dire che un'interpretazione diversa non sarebbe stata così emozionante come, invece, lo è stata quella di ieri sera. Ho seguito con attenzione i gesti e gli occhi di Luana e bastavano loro per sentirsi   negli stessi panni del personaggio. Ecco, l'ho percepita come la voce di tutte le donne del mondo. Una voce che ha dato vita alle parole taciute da tutte le altre donne.
La messa in scena è stata fatta alla maniera di "The Hours". Tre momenti di epoche diverse, legati da un filo molto forte: " Mrs Dalloway" .
Mi hanno colpito alcuni piccoli cambiamenti come un Richard più giovane di Clarissa, però, alla fine, non mi è dispiaciuto. Forse, questo suo essere giovane può dare più sostegno alla sua 'inquietudine'.
La cosa che mi ha veramente fatto addirittura fare un cenno di approvazione con la testa è stata l'azione di Luana di pronunciare a voce spenta le stesse parole che pronunciavano a voce alta altri personaggi. Una Luana decisamente coinvolgente. Abito e pettinatura perfetti, voce assolutamente perfetta e interpretatio favolosa. Ci vuole molta bravura per tenere alta la qualità dell'atto, qualità che viene data, in tutta onestà, dall'interpretazione di Luana seguita da quella di Claudio nei panni di Leonard. Mi piacerebbe rivederla.
Chissà...
Grazie, Luana, per la bella sorpresa.

9 marzo 2014
Come posso condensare in poche righe quello che è stato ieri sera? Sono stanchissima e credo che non mi basterà per tutto il giorno aver dormito tanto. Ieri sera si è concentrato tutto ciò che credevo e volevo possibile per il mio Falene, e così è stato. La sala era piena, c'erano importanti nostri contatti del mondo del teatro che pratichiamo, oltre a care persone e colleghi per quanto mi riguarda che non vedevo da anni.
La mia Virginia ha vibrato di note nuove, soprattutto nella soffertissima scena della stazione. Com'è bello lasciarsi andare, lasciare che le parole escano fluidamente e far sì che le emozioni forti che le accompagnano ti inondino da capo a piedi... Il pubblico era attento e partecipe.
Il finale è stato forte e intenso come nelle volte precedenti. Il pubblico più esperto lo ha assorbito ancora meglio, il mio discorso accorato è arrivato a tutte le donne presenti.
E poi... la mia sorpresa. Rigorosamente partorita di notte (!) Le rose erano gialle e bianche, le abbiamo confezionate con un rametto di mimosa e le abbiamo legate ciascuna ad una strisciolina di carta su cui ho messo una frase augurante, il link al sito e l'indirizzo email, e qua e là, 10 striscioline ciascuna recante un frammento di una poesia molto bella di questa Francesca Pacini giornalista e scrittrice che ho fra i miei contatti. Luci accese in sala dopo i lunghi applausi (mi devo scaricare le tasche del cappotto dei sassi che vi infilo prima di avviare la mia Virginia verso il fiume nel quale si annega), noi con i nostri mazzi di rose in mano usciamo per la seconda volta, scendiamo dal palcoscenico e consegniamo una rosa a ciascuna donna del pubblico. Le facce sono stupite e contente. Risaliamo in palcoscenico e dico a tutti di aprire il biglietto, coloro che si trovano i frammenti di poesia sono invitate in palcoscenico a leggere a turno, perché vogliamo coinvolgere le donne in un afflato unico fra parterre e palco, e perché vogliamo dire qualcosa di importante tutti, attori e non.
Le donne in platea si guardano un po' incerte e poi cominciano a salire, fra applausi e parole di ammirazione. Ci riuniamo tutti in palcoscenico, siamo noi 6 e 10 della platea (fra cui due uomini, per altro). Com'è bello sentirli uno ad uno a turno, emozionati e desiderosi di esserci e dare un contributo. Il risultato è un perfetto amalgama fra lo spazio della finzione scenica e quello dello spettatore. E il momento è commosso e straordinariamente diverso da tutto ciò che uno spettatore poteva attendersi.
Chiudo la lettura di gruppo dicendo che quella rosa di ciascuno non vada persa, nel suo morire sia fatta seccare, sia chiusa fra le pagine di un libro perché resti sempre, e poi donata ad una persona cara quando sarà il momento. I volti sono raggianti, sono certa che ciascuno stia pensando a chi destinarla.
Il gruppo si scioglie fra i saluti finali, scendo dal palcoscenico, e vengo letteralmente inondata di abbracci, strette di mano, occhi che mi guardano lucidi e curiosi di guardare da vicino quella vibrante attrice di prima. Sono come stordita, torno a dire che emozioni simili a queste ho provato solo la sera in cui 250 persone applaudirono la vittoria del Premio di regia, non posso che assimilare questi a quei momenti.
Mi ritrovo dinanzi volti che non vedevo da anni, e la mia gioia non sta solo nel rivederli, ma nel sapere che hanno scelto quella sera e me. Ovviamente parlo del pubblico che appartiene a me, gli altri attori hanno i loro parenti e amici da salutare. Io non ho famiglia qui. Le persone che mi abbracciano, che vogliono farsi delle foto con me, che mi dicono "grazie", non sono che lontane conoscenze, vecchi colleghi, sconosciuti rimasti colpiti da un racconto che non si dimentica.
Falene è per me come un approdo, un'isola piccola e ridente e rigogliosa dove la mia barca ha attraccato e sulla quale mi lascio inondare da un sole caldo e assaggio frutti dolci e succosi. Qualcosa mi dice che questa ricchezza può provenire solo dalla sofferenza di buia esperienza, e ringrazio Iddio e me stessa per avere lasciato che il tempo plasmasse in me nuove forme, idee, attingendo paradossalmente al dolore. Tanta scuola di discipline performanti legate al teatro insegna proprio che l'attore più completo è quello che destreggia e utilizza un'esperienza di dolore sedimentata e cristallizzata, superata, vinta e perfino usata per essere qualcosa di più, sapere arrivare fin dentro al midollo dello spettatore, rispettare rigorosamente questa straordinaria arte ineguagliabile donando generosamente e a piene mani.
Quanto lontana è quella giovane attrice che muoveva i primi passi in palcoscenico, che riteneva troppo impreparata per un lavoro coraggioso. E' vero, non si può affrontare un progetto di questa portata se dentro di te non ti muove una forza sovrumana che chiede di essere tradotta in un messaggio forte, pulito, definito e rifinito.
Questo è il mio Falene, questa sono io.
Luz

Virginia Woolf

Si può scoprire una donna come Virginia Woolf anche in età matura, regalandoti il gusto di un lento svelamento. Perchè Virginia si svela lentamente come una grandissima donna: intelligente, estremamente sensibile e profonda, un mix che splendidamente si concentra in tutto ciò che ha vissuto e scritto. Interpretarla in una pièce teatrale può sembrare azzardato, e difatti un'operazione simile richiede coraggio e fiducia nelle proprie possibilità. Per poterla portare in scena, lo studio è stato complesso. Mi sono anzitutto regalata l'interessante biografia di Nadia Fusini, la massima conoscitrice della Woolf in Italia. Che mirabile viaggio ho compiuto. Ho visto le sue fotografie, letto diversi suoi scritti, le ho guardato gli occhi degli anni felici. Virginia non è la donna cupa e triste che tanti hanno descritto. E' (perchè resterà sempre) una donna straordinariamente vivace e appassionata e amante della vita - quale immensa contraddizione in quella morte cercata e ottenuta! Mi sono commossa dinanzi alle foto delle sue feste in casa, a quella gioventù gaudente che ha alimentato con la sua ospitale cordialità e l'intento di creare cattedrali di pensiero.
E' evidente che per ogni scrittore esista un "progetto" narrativo prima di scrivere. Ma pochi sono istintivi in questo, e preferiscono la rassicurante scaletta lungo la quale costruiscono il tessuto narrativo. Virginia è immediata, procede per lampi di intuizione e pertanto la sua scrittura è come "ondeggiante" fra l'adesso e i pensieri. Straordinaria! Ma allo stesso tempo forte, vagamente androgina, cerebrale, direi unica.
Se potesse parlare, cosa racconterebbe Virginia? Lasciamole la parola.
Luz
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Quanto potrei narrare della mia vita, finita tragicamente per mia scelta.
Se guardo indietro, vedo una bambina, che si immaginava imprigionata in un acino d'uva, forse memore di quel calore fluido che solo nel liquido amniotico si prova. Non ne abbiamo memoria o forse possiamo ricordarne la sensazione di avvolgente abbraccio? Dal mio acino d'uva vedevo il mondo esterno, distorto come in una concava visione. Poi ricordo una casa, St. Ives, dove trascorsi gran parte dell'infanzia. Una grande scala, la passiflora argentea che si arrampica sulla facciata della casa, mia madre, la mia amata madre che al mattino, capelli sciolti e trine bianche, respira l'aria tersa. Ricordo la nascita dei miei fratelli minori, così come la mano di mia sorella maggiore, che sorveglia ogni mio passo. Forse vissi più lei che la mia stessa madre.
Julia, la donna che mi ha dato i natali, era una vedova che trovò in mio padre l'uomo che avrebbe potuto donarle un po' di serenità. Vidi sempre in lei ciò che non volevo diventare, malgrado l'amore che provassi. Volevo essere come i miei fratelli, liberi e volitivi, ma in compenso avevo l'amore di mio padre, che riuscivo a corteggiare come una innocua civettuola...Qui sono assieme a mia sorella, Vanessa Bell Stephens. Io sono a sinistra della foto.
Quando morì mia madre, avevo appena 13 anni.
I miei ricordi si mescolano a sogni strani che feci all'epoca, quindi non saprei dire se sia realmente accaduto che entrassi in una stanza dove c'era la salma e baciassi la sua fronte fredda.
La morte di mia madre cambiò le nostre vite. Mio padre non fu più lo stesso, vendette la bella dimora estiva di Talland House, e si chiuse in un cupo atteggiamento, che lo portò a volte a essere freddo e distaccato con noi tutti. Mia sorella maggiore sostituì mia madre nell'amministrazione domestica, e credo che molto perse in questo, in anni d'adolescenza in cui tutto doveva invece essere luminoso e folle. I miei fratellastri divennero ingombranti e uno di essi cominciò d'abitudine a scendere nei nostri appartamenti e venire da me, nella mia stanza, ad abusare di una piccola ragazza che mai denunciò questo fatto. Non saprò mai quanto mi segnarono quelle oscure carezze, ma credo di non esserne stata immune nel mio percorso di vita...
Queste siamo io e le mie due sorelle, Vanessa e Stella.
E veniamo all'uomo che ho sposato, il buon Leonard.
Come era usanza per molti giovani inglesi, andò a soggiornare a Ceylon per diversi anni. Lo avevo conosciuto poco prima che partisse, c'eravamo incontrati proprio nel mio salotto letterario e rivoluzionario a Bloomsbury. La sua partenza non mi aveva addolorata. Io ero presa da Clive, che ho detto avrebbe sposato mia sorella, dalle mie carte, gli studi, le amicizie che mi hanno seguita fino alla fine. Leonard era stata una presenza discreta e fugace a quei tempi. Quando tornò, si lego profondamente al gruppo, si sentì parte del nostro progetto culturale e sociale. Dovete considerare che il fervore intellettuale di Bloomsbury era qualcosa di straordinario e vitale. In campi diversi, chi nella propria esistenza, chi nella propria disciplina, chi nell'arte, chi nella scienza, noi liquidavamo il passato, trasformavamo il presente, anticipavamo il futuro.
Il ritorno di Leonard in Inghilterra segnò profondamente il suo destino, non solo per avermi presa in moglie, ma è bene che faccia un passo indietro e vi dica perchè era partito. Era ebreo, e aveva dovuto rinnegare il suo giudaismo. Aveva dovuto come sottoporsi all'abiura di suo padre, che ne sconfessò perfino l'esistenza, e si era legato profondamente a noi tutti. Leonard aveva dovuto imparare a vivere con altri mezzi, nutrendo un pensiero e un'esistenza del tutto laici. Una volta laureatosi, aveva lasciato Cambridge, a malincuore, ed era partito per Ceylon per guadagnarsi da vivere, non aveva avuto altra scelta.
Mi raccontò che a Ceylon aveva lavorato undici ore al giorno sette giorni su sette. Gli era stato affidato il governo di un intero distretto. Era stato poliziotto, magistrato, giudice, medico, veterinario, esattore, e altro. In un luogo senza strade nè ferrovie, solo, senza alcun altro europeo accanto. Acquisì in quegli anni la sua tenacia, che diventò una piega del suo carattere. C'è da dire anche che sfiorò una certa misantropia e che imparò a detestare la mediocrità.
Quando tornò a Londra, Leonard aveva in sè alcuni aspetti del suo carattere che mi affascinarono e incuriosirono. Mi catturò il suo riflesso paterno, divenne gradualmente per me il padre che avevo perso, o che avevo da sempre desiderato. Non era forse vero che Leonard assomigliava a mio padre per l'ambizione almeno?
Ci incontrammo a Gordon Square, nella stessa casa dove lo avevo conosciuto sette anni prima e restò incantato quando gli tesi la mano (mi avrebbe poi detto che lo aveva affascinato constatare come fossi cambiata, in meglio), restò fermo come se vivesse l'emozione di una bellezza.
Mi disse una frase in francese: L'armonie la plus douce este le son de la voix de celle que l'on aime. Non mi amava ancora, ma si era innamorato dell'idea di amarmi.
E io? In età da marito, come avevo preso quelle attenzioni? Devo confessare che desideravo fortemente sposarmi e che non volevo assolutamente restare zitella. Era una questione di femminilità. Avevo diversi pretendenti, anche illustri, ma nessuno pareva fare al caso mio. Leonard, invece, forse sarebbe potuto andare bene, e lo invitai in campagna.
Ricordo bene quei giorni. Passeggiamo per le colline del Sussex, e parlammo parlammo parlammo. Era diverso dagli altri uomini che conoscevo, tutti più simili ai miei fratelli, tutto o quasi figli di un'aristocrazia intellettuale. Forse perchè era ebreo, forse perchè suo nonno faceva il sarto, Leonard aveva in sè qualcosa che lo rendeva affascinante e diverso insieme.
Quando mi chiese in moglie, pertanto accettai. Mi sarei mescolata con una classe media di professionisti, io, Virginia Stephen, nella quale vibrava un'aristocrazia di lettere tra le migliori del paese. Leonard non mi avrebbe offerto alcun blasone, solo la propria indefessa volontà di lavorare.
Però, attenzione: io non sposai Leonard, tradendo la mia classe sociale, per obbedire ad un'altra. Mi piaceva perchè era un outsider esattamente come me. Lui era duro, inflessibile, esigente, irreprensibile, esattamente come mio padre. Mi accorsi anche di una sua cupezza, perchè non amava ridere nè giocare, attività che noi giovani di Bloomsbury adoravamo.
Fu così che Leonard mi sposò, venne ad abitare all'ultimo piano di Brunswick Square, e cominciò a portarmi il vassoio del pranzo al secondo piano, perchè non dovessi scendere. Io scrivevo in quegli anni La crociera. Eccoci nel giorno del nostro matrimonio.

giovedì 18 settembre 2014

Una fragile armonia

Interessante questo racconto ambientato nel sofisticato mondo della musica classica, che si fa cornice di un intreccio sulle relazioni umane, sull'ambizione e la frustrazione, sulla solitudine e il rancore. 
Trama semplice: il maestro di violoncello, fondatore del quartetto, è colpito dal Parkinson, pertanto non potrà più sostenere i virtuosismi dell'Opera 131 di Beethoven, il prestigioso repertorio della tournée imminente. Il ritiro dalle scene, sapientemente preparato, fa da sfondo alle difficili relazioni fra gli altri tre componenti del gruppo, che modificano il loro percorso consapevoli del vuoto che lascia il loro maestro e mentore. I protagonisti si scoprono in equilibrio instabile, al centro di un sistema cui solo la musica riesce a dare stabilità. Robert, il secondo violino, intende prendere il posto di Daniel, primo violino, amico e maestro di strumento di sua figlia; il dialogo fra Robert e sua moglie Juliette, violista del quartetto, precipita fino al tradimento di lui con una danzatrice di flamenco; Alexandra, loro figlia e promettente violinista, inizia una relazione con Daniel. E' tempo di resoconti e bilanci dell'ultimo ventennio, mentre Peter sprofonda lentamente nella sua malattia e si prepara al suo addio alle scene. 

 Forse Beethoven cercava di sottolineare il senso di coesione, il senso di unità fra fatti della vita.

Questo film diventa una lente di ingrandimento di ciò che può celarsi dietro il celebrato mondo dei più grandi interpreti della musica, mostrando miserie umane che accomunano questi virtuosi musicisti al resto del mondo. Sono in grado di farsi preziosi interpreti di partiture complesse, ma sacrificando preziosi affetti, diventano attenti a ogni piccola coloritura, pronti a sfidare la narrazione del genio e farsene reinventori, ma perdendosi nel contempo dinanzi ai bisogni di una figlia, che urlerà la sua solitudine o rifuggendo ogni altro rapporto umano, totalmente immersi nell'incanto di quelle opere complesse.
Uno degli aspetti più interessanti del film è proprio questa aperta dichiarazione nei riguardi del dovere della conoscenza. In una delle scene, mentre Alexandra, ancora acerba violinista, tenta di suonare un brano difficile, Daniel spegne ogni sua velleità mettendone fra le mani tre volumi sulla vita di Beethoven, dicendole che è impossibile suonare senza prima conoscere a fondo le intenzioni, i contenuti, le direzioni di chi crea quelle partiture. Il rigore dello studio che diventa indispensabile per essere autentici musicisti. Il prezzo è altissimo, ma questi studiosi hanno costruito il loro percorso consapevoli che non esistesse nient'altro che volessero attraversare, sperimentare, nel quale volessero immergersi totalmente. 
Ho fatto l'ennesima riflessione sull'onestà di chi realmente lavora perchè un capolavoro venga perpetrato, su chi comprende ogni giorno quanto sia necessario lo studio vero e il rispetto di ciò di cui i grandi ci hanno reso eredi. Il film racconta pertanto essenzialmente questo aspetto e si fa metafora di quanto possa costare l'autenticità e la credibilità. Da vedere. 
Luz

mercoledì 10 settembre 2014

Frida: una maestra di vita

Alla fine si è arresa. Con coscienza e consapevolezza ha deciso di togliersi la vita finchè fosse ancora in grado di farlo. In quest'ultimo libro che ho letto, il quinto su Frida Kahlo, non pensavo di trovare qualcosa di inedito, di chiarificatore di ciò che è stata la vita di questa grande donna, di questa originale e insolita pittrice, di questa tenera e disperata amante. Con il mio insaziabile desiderio di saperne di più...di più....Invece ho trovato qualcosa di veramente stupefacente che mi ha resa incredula, indifesa, in un certo senso, di fronte a tanta forza. Ho trovato una maestra di vita. 
Delle sue disgrazie fisiche sappiamo ampiamente. La polio all'età di sei anni che la farà combattere per tutta la vita con quella sua "gamba matta" oggetto di scherno da parte dei compagni a causa dello zoppicare. Poi, era settembre, adolescente, passeggiava con Alex primo fidanzatino, faceva caldo. Un ombrellino di carta avrebbe cambiato per sempre la sua vita. Lo schianto e non percepire nulla. L'abisso del più grande oceano sulla terra solo quando qualcuno chino su di lei le aveva estratto un pezzo di corrimano conficcatosi nel suo ventre. Un abisso di dolore e una nuvola di sangue. Da questo momento entra nella vita di Frida con prepotenza, con cinica e perfida insistenza, il Demone, quell'atroce dolore che non l'abbandonerà mai se non in quei momenti in cui Frida riuscirà a"tenerlo buono"e con quali sovrumani sforzi! Certo, è un Demone e le armi per affrontarlo a tu per tu, guardandolo sempre negli occhi, senza abbassare lo sguardo mai, (se ne approfitterebbe) è la consapevolezza che esiste, c'è. Ecco l'insegnamento, inconsapevole sicuramente, all'inizio, che Frida impartisce al lettore. 
Da subito rifiuta categoricamente la compassione. Già quando i compagni la prendevano in giro a causa della polio, lei rispondeva con disprezzo, anzi trasforma la cattiveria dei compagni in capacità difensiva. E' in questo momento che invidia non i bambini che non zoppicano, ma quelle creature con le ali: le farfalle, gli insetti, gli uccelli. Fantastico mondo in cui si rifugiava cercando e, trovandolo, sollievo per la sua anima, per il suo spirito. La spiritualità di Frida è innegabile, trovo che sia presente ovunque. E' nella sua origine messicana.  Ma la compassione, nelle sue condizioni, quando è costretta a stare immobile a letto per mesi e mesi compressa, strizzata, in quegli orribili strumenti di tortura che sono i molti busti di vario tipo e grandezza, le corre dietro. Ma lei che si ritiene più forte, più veloce, quando appena può, va in bici, si arrampica sugli alberi e siccome lei era diversa si può permettere cose inconcepibili per le altre bambine: wrestling e pugilato. E questa è la mia prima lezione. 
Seconda lezione:quando il dolore ti costringe, ti imprigiona troppo nel tuo corpo, allora devi uscire. Diventare qualcun altro. Per lei la pittura, decide di dipingere se stessa, far "urlare" i suoi quadri. Ma non dimentica mai, neanche per un istante, il Demone che si trasforma, assume mille sembianze pur di trarla in inganno, di sottometterla, ammansirla. Ma lei è sempre più forte ora che ha la sua arte, i suoi quadri. 
Terza lezione: consapevolezza della condanna che incombe, è il suo destino. E' la pena di morte, continuamente rinviata, ma sempre accanto a lei, paziente ma sicura di sè. Ma Frida vive la sua vita. Intensamente, con passione, da donna intelligente, fragile, curiosa, trasgressiva, eccessiva, sempre a rincorrere il tempo. Ama Frida, sempre, anche coloro che non meriterebbero la sua accondiscendenza, la sua comprensione. La sorella, Diego.
Quarta lezione: Diego l'ama tantissimo e lei lo capisce solo attraverso la pittura, per questo lo perdona. Noi oggi, forse, non saremmo indulgenti, non perdoneremmo un uomo che tradisce sessualmente e continuamente Frida. Ogni modella, ogni donna  Diego la deve anche possedere. Ma Frida non subito, ma gradualmente capisce il perchè e continua ad amarlo. Il loro è un legame speciale, istintivo, profondo. Quando fanno l'amore sono due anime che si fondono.
Quinta lezione: la maschera che Frida ha deciso di indossare per ingannare il mondo, chi le sta vicino, chi la compatisce, chi la sottovaluta. Questo le permette di essere lei consolatrice delle pene altrui, fa quello che desidera, si diverte anche, gioisce come in una rappresentazione teatrale e anche il suo Demone si stempera, si acquieta. Ma era temporanea la tregua. 
Ultima lezione: non si può sfuggire al proprio destino, la condanna a morte è esecutiva. Frida lo capisce, si confronta con se stessa. Ha quarantasette anni, ha subito trentadue operazioni, forse di più, ha lottato ma finchè ne aveva visto il senso. La sua pittura, i suoi quadri attraverso i quali noi conosciamo la vera Frida, non la maschera. Il vero dolore, la vera sofferenza, tutto: il Demone, la Morte che la affianca sempre. L'urlo della sua intera esistenza. Ma quando ha capito che il suo percorso era giunto a termine, che non avrebbe più potuto dipingere ha deciso. Quest'ultima parte del libro, devo essere sincera, non volevo leggerla. Avevo la sensazione che non avrei approvato, l'avrei criticata e invece....non desiderava più scappare, si sentiva soddisfatta di quello che aveva fatto e anche di quello che aveva ottenuto. Con lucidità immagina le persone care e il ricordo che avranno di lei. Le forze le servono per dimostrare a se stessa che non ha più aspettative quindi deve essere coerente fino in fondo. 
L'amputazione della gamba è l'ultimo atto, è il momento di far calare il sipario per davvero questa volta. Lei amava la vita e era grata di essere vissuta "malata in un mondo di gente sana e normale". Togliersi la vita come ultimo atto della sua volontà. La puntura non la sentì neanche. "Il bianco la inondò". E mentre sto finendo di scrivere, guardo la copertina del libro "Il letto di Frida" di SlavenKa Drakuliç" e mi sta sorridendo!                                                                   
Cris

sabato 6 settembre 2014

Murakami - Norwegian Wood

Non delude le aspettative questa storia apparentemente "leggera" e in realtà complessa, una sorta di "educazione sentimentale" ampiamente ispirata ai romanzi ottocenteschi di formazione, che in questo scrittore hanno creato fin da giovanissimo una forte suggestione. La vicenda non è che un lungo flash back del protagonista, Watanabe Toru, giovane studente universitario negli anni dal '68 al 70, e in questo lungo ricordo si intrecciano le storie dei tanti personaggi solo apparentemente comprimari, tutti legati in modo profondo a Watanabe, ciascuno destinato a tracciare un segno forte nella sua vita. Questo modo di raccontare è singolarissimo e assai interessante. Se Murakami pare fare riferimento al Dickens di "David Copperfield", la storia di Watanabe sembra non porre mai il protagonista realmente in primo piano, quanto piuttosto essere strumento che mira al racconto delle altre vite a lui legate. Ne risulta un intreccio ricco benché lineare, complesso perchè ciascuna esperienza narrata sembra una lama che lentamente affonda, che descrive il destino del protagonista, le sue scelte, il tormento adolescenziale unito all'impossibilità di restare indifferente dinanzi ai colpi del destino dei molti che Watanabe ha scelto perchè possano far parte del suo costruirsi. Mi interessava scoprire come uno scrittore giapponese, di cultura diversa dalla mia, potesse narrare una vicenda nella quale i lettori occidentali si sono facilmente identificati, e ho scoperto che tanta cultura occidentale è in questo romanzo, ricco di riferimenti alla letteratura e alla musica pop americana ed europea. Letteratura e musica diventano mezzi potentissimi nel racconto, romanzi e brani celebri che Watanabe ama leggere e ascoltare e sui quali forma la sua identità culturale, che si arricchisce di questa universalità.
Attorno a Watanabe ruotano vite dalle tinte forti, tutte caratterizzate da elementi unici, caratteri che il protagonista osserva per prenderne le distanze o imparare alla ricerca di una propria identità. L'intelligenza e la perfidia di Nagasawa, per fare un esempio, il suo migliore amico nel quale gli è difficile identificarsi, ma che ammira e imita per poi distaccarsene consapevole di una distanza incolmabile da lui. Ma le vite indimenticabili del romanzo sono quelle dei personaggi femminili: Naoko, Midori, Reiko. Tre donne diverse eppure unite da quegli elementi comuni tipicamente femminili - fragilità, sensibilità, forza attrattiva - dalle quali Watanabe sarà in qualche modo travolto. Naoko è l'Amore puro, idealizzato, etereo. Midori è l'Amicizia, la concretezza, la velocità. Reiko è la Donna per eccellenza, la forza, le radici. Tre donne legate alla vita di Watanabe nel biennio narrato, ma destinate a lasciare un solco indelebile in lui.
Su tutto, aleggia una forza "altra" che compare a più riprese nella vicenza, la Morte. Watanabe la sperimenta per la prima volta con la perdita del suo primo migliore amico, Kizuki, e la svolta è già lì. Mirabile il passaggio in cui il giovane comprende la verità ineluttabile, che la morte è parte della vita.
La morte non è l'opposto della vita,
ma una sua parte integrante.
Murakami lo scrive così, come un distico immobile sulla pagina, un principio assoluto che grava sugli uomini, che la scelgono per liberarsi o ne sono travolti loro malgrado.
Luz

martedì 26 agosto 2014

La cognizione del dolore


Sono parecchi giorni che ho in mente di scrivere questa riflessione sull'eco ancora presente del dolore per la scomparsa così tragica e inattesa di Robin Williams. Tutto è nato dalla lettura e rilettura di due miei compagni di viaggio, uno recente l'altro più lontano.
Pietro Citati in quell'affascinante, perspicace e raffinato libro, che ho appena finito di leggere:"La malattia dell'infinito", fa un ritratto di Joseph Roth iniziando così:"......J.Roth aveva un'immaginazione immensa...in ogni rigo che scrisse ritroviamo le ferite della sua anima, desideri impossibili, la caduta, la precipitosa discesa verso la morte....le sue storie sono un'incessante autobiografia". Sono corsa a rileggere "La leggenda del santo bevitore" e a tornare con la memoria al suo grande interprete, nel film, appunto, Robin Williams. Non so perchè, ma istintivamente questi due personaggi, così lontani mi sono sembrati molto simili e volevo trovare, ad ogni costo, la mia certezza. "La leggenda del santo bevitore"è stato l'ultimo capolavoro uscito dalle sue, di J.Roth, tremanti mani di alcolizzato. Anche lui aveva sempre fuggito qualcosa e qualcuno, era un viandante. Come il suo "santo bevitore" sprofondò nell'alcol come in un abisso. Ma, stranamente, l'alcol risvegliava in lui la potenza nascosta del riso. Racconta Citati che, la sera, nella piccola rue de Tournon, le risate erano così fragorose che dovevano accorrere i poliziotti! Roth diceva che se non avesse avuto l'alcol non avrebbe avuto buone idee. Ma mentiva, dice Citati, tutto doveva al suo genio. Ma anche l'euforia, l'eccitazione che si trasformava in limpidezza narrativa, e "La leggenda del santo bevitore" è un capolavoro in questo senso. Ma c'era anche fascino, candore,tenerezza, ironia, irrealtà, leggerezza.
Poco prima della morte J. Roth lesse agli amici una parte della" Leggenda del santo bevitore"e tornano i miracoli, tutto ciò che vive al di sopra dell'esistenza, sebbene profondamente immerso in lei, come lo è appunto Andreas, il vagabondo ubriaco. Alla fine però, appena egli cade a terra di schianto e viene portato nella sagrestia della chiesa della Santa che non riuscirà mai a vedere, la voce fuori campo di Roth commenta: "Conceda Dio a tutti noi, a noi bevitori, una morte così lieve e bella!". Joseph Roth e Robin Williams non conobbero:"la morte lieve e bella"del loro santo bevitore ma entrambi sono stati :"ALOHA" secondo la tradizione hawaiana, suscitandomi un profondo senso di tenerezza e gratitudine.                                                     Cris

giovedì 14 agosto 2014

Addio a Robin Williams


La notizia è di quelle che sconcerta, oggi è un giorno malinconico e la sensazione è che il mondo sia un po' meno bello. Robin Williams ci lascia sgomenti dinanzi alla sua morte improvvisa. Istrionico, brillante, coinvolgente, impossibile non amare questo straordinario attore. Se ne va non solo all'improvviso, ma anche troppo presto, ed è facile pensare a quante altre interpretazioni avrebbe potuto regalarci. Sono sempre più convinta che la variabile "tempo" sia fondamentale. Il tempo e il "fare" sono strettamente connessi se il nostro fare è creativo, e il "saper fare" di questo artista era certamente rarissimo.
Se dovessi ripercorrere la sua carriera e ciò che mi è piaciuto di essa, non saprei davvero cosa scegliere, perchè ogni film è stata un'esperienza che arricchisce. Il film perfetto, "L'attimo fuggente", è solo in cima alla mole di ottimi lavori. Di Robin Williams ricorderò due aspetti in modo particolare: l'aver portato un carico umano di ironia anche nei suoi ruoli drammatici e l'essere stato attore e uomo capace di umiltà. Amerò per sempre il professor Keating de "L'attimo fuggente", così come Patch Adams dell'omonimo film, e ancora il dott. McGuire di "Will Hunting". Ma potrei citare anche lo splendido Peter Pan di "Hook", che fu uno dei capolavori dei primi anni Novanta, "L'uomo Bicentenario" e lo struggente "Mrs. Doubtfire" che mescolava comicità pura a un fondo di triste incomunicabilità familiare. Non c'è stata pellicola in cui è protagonista che non sia stata arricchita e resa significativa dalla sua presenza.
In queste ore ho potuto constatare che al vissuto di ciascuno di noi può essere legato, farne legittimamente parte, anche un attore che ci ha raccontato molte storie mettendovi molta parte di sé. Perchè non si dimentica l'emozione provata dinanzi al grande schermo mentre scorrono le immagini di un grande film e tu, adolescente, assorbi come una spugna non solo trama e ordito, ma anche quella variabile emotiva che arriva quando chi narra sa trasmettere intimamente se stesso. E questo è stato Robin William per me, in tante sue pellicole.
E così Robin se ne va, in punta di piedi e senza disturbare, e solo adesso veniamo a conoscenza dei suoi atti di generosità, uno fra tutti il farsi carico delle spese mediche dell'amico e attore Christopher Reeves, che rimase paralizzato in seguito ad un incidente a cavallo. Veniamo a conoscenza dei suoi problemi di depressione, cui la sua scomparsa improvvisa è legata. Robin se ne va togliendosi la vita, soffocato da una cintura appesa ad un'anta di armadio, forse non del tutto consapevole dello sgomento del mondo dinanzi a ciò che avrebbe saputo di lì a poco. Si è portati a pensare alle mille ragioni di un gesto così estremo, a colpevolizzare e condannare perchè ai più sfugge che non sono il successo e il danaro a fare la felicità. Resta il ricordo di un istrione dal talento incommensurabile e di un uomo di buon cuore forse vulnerabile per sostenere il prodotto di quel talento.

Luz

lunedì 11 agosto 2014

Frida Kahlo

Non saprei dire con precisione quando seppi dell'esistenza di Frida Kahlo. Ricordo di aver sfogliato una rivista una ventina di anni fa e di aver visto la fotografia in bianco e nero di una donna sdraiata in un letto, con una tavolozza in una mano e un pennello nell'altra. Ricordo anche che mi colpì il suo volto, gli occhi che guardano distrattamente l'obiettivo, le grandi sopracciglia. Solo molti anni più tardi Frida fu completamente riscoperta quale icona possente di primo Novecento.
Nella storia personale di Frida l'artista e la donna gareggiano per attirare l'attenzione. Tuttora non saprei quale delle due prevalga nel mio pensiero. Da un lato l'artista surrealista con le sue opere di impressionante forza, dall'altra la donna della quale senti il dolore, la forza, l'imperioso gettarsi in una vita amata e odiata. La bellezza di questo straordinario personaggio sta nel fatto che entrambe le anime sono alla fin fine una sola, un'amalgama fluido ed esplosivo che ha scavato un solco profondo nella storia dell'arte del secolo scorso.
Non si può amare Frida l'artista e ignorare la donna. Perchè anzi conoscendo i percorsi della donna si sostanzia la sua arte, si arricchisce di un significante che va molto al di là dell'impatto che impressiona lo spettatore. Io e la mia amica Cris ci siamo trovate sabato scorso dinanzi a molte delle meraviglie da lei dipinte e nel pensiero di entrambe, che amiamo molto questa artista, si è ampliata la nostra idea di lei. E' bello questo nostro leggere tanti libri che la riguardano e vederne da vicino molti  dipinti e disegni. Così come sapere che esiste una Bellezza che non può che arricchirci, lasciare un segno importante, chiederci di essere guardata, fruita, divorata, e di essere come un torrente nel quale ci si getta e la cui corrente trascina e coinvolge. Si rischia di essere retorici, ma conoscere Frida è esattamente questo. La nostra ricerca prosegue, perchè tanto ancora dobbiamo sapere. Avvicinarsi passo a passo a Frida, svelarne il mistero, è il dovere imprescindibile di chiunque non possa ignorare l'umanità che ha sostanziato la storia del mondo, di quella umanità di artisti, poeti, scrittori, interpreti, che riesce a parlarci da ogni tempo e luogo, nel linguaggio trasversale e universale del genio.
Luz

venerdì 8 agosto 2014

Un sogno nel cassetto

SIN'OPAH è un romanzo, un'opera prima, che per tredici anni è stato avvolto, protetto, accucciato nella penombra di un cassetto. Già questo dimostra che la nostra vita scorre velocemente, che i fatti e gli avvenimenti si avvicendano vorticosamente e la quotidianità, spesso, si riprende i nostri entusiasmi e sogni del momento e ci convinciamo che sono provvisoriamente accantonati. Dopo tredici anni, in piena adolescenza, ecco che così per caso, tra una chiacchiera e l'altra appare Sin'opah e la curiosità mi assale anche perchè è un libro di 609 pagine! M'immergo, mi isolo.
Racconta la storia di una donna, coraggiosa, intraprendente, testarda, che ama la vita ma spesso, per le convenzioni dell'epoca, non ne è adeguatamente contraccambiata. Si muove all'interno di una bizzarra famiglia, conformista e poco incline al rispetto della diversità. I personaggi sono tanti, descritti magistralmente con grande dovizia di particolari. Dialoghi attenti e serrati, che ricordano i classici della letteratura francese dell'8OO. La storia più avvincente, quella vera, fa da sfondo all'intero romanzo: la lotta dei pellirosse per la sopravvivenza. Notevole è il lavoro di ricerca dell'autrice su questi popoli e le loro tragiche vicissitudini. S'incontrano personaggi come Lupo Pazzo, capo dei Piedi Neri, Nuvola Rossa, Coda Macchiata, i famosi Toro Seduto e Cavallo Pazzo e infine Alce Nero: "l'ultimo testimone della loro disfatta". Un capitolo intero è dedicato al generale Custer, grande e contradditorio personaggio della storia di quell'epoca. La descrizione di questi personaggi è approfondita e fedele, di notevole impatto emotivo tanto da sentirsi protagonisti di uno di quei tanti film"western"che hanno affascinato intere generazioni. Nel romanzo emerge con forza e onestà il giudizio storico piuttosto semplicistico che continua a presentare i nativi americani come un popolo selvaggio incapace di rispettare le regole della civile convivenza, destinato a subire la supremazia dei bianchi per ricevere da essi la civiltà. Ma paradossale e sorprendente è la capacità dell'autrice di far capire al lettore che quel popolo è stato annientato da uomini costretti ad emigrare, che erano andati a cercare la libertà in quelle terre. Dunque una tragica condizione di popoli perseguitati che si fanno a loro volta persecutori di altri più deboli, come è avvenuto tante volte nella storia, e come avviene ancora! Dimenticavo, l'autrice di questo affascinante, interessante e di non facile lettura è: Maria Luana Petrucci.
Cris                                                                                                            
                                                                                                 

giovedì 7 agosto 2014

Gli sdraiati

 Quando ho cominciato questo libro mi trovavo sulla spiaggia di Barceloneta, in Spagna. Avevo bisogno di un piccolo libro da portare con me in vacanza e da cominciare, nel caso mi fossi trovata a dover riempire il tempo. Mi trovo dinanzi al racconto, immediato e senza fronzoli, di un padre che dinanzi al caos del figlio adolescente lascia intendere subito di non essere assolutamente capace di farvi fronte. E' un padre divorziato e questo figlio condivide la sua casa in qualche fine settimana in cui il ragazzo non ha di meglio da fare. Sulle prime, in questa lettrice in vacanza all'estero sotto sole di luglio monta un senso di fastidio. Mi ritrovo a pensare che si tratti dell'ennesima storia di questi genitori contemporanei, inabili al loro mestiere, privi di talento, educatori mancati. Ci sono tutti gli ingredienti che occorrono per costruire la storia di un uomo di mezza età che fa i conti coi propri sensi di colpi e l'incapacità di instaurare un dialogo col proprio figlio. Ma io stimo troppo Michele Serra per credere che si tratti semplicemente di questo. E difatti, man mano che ci si addentra nella storia, si scopre che si tratta di una provocazione alla riflessione.

Sentirmi chiamare papà, e da lontano, e in quella esposta porzione del mondo, in quella incerta dimensione del tempo dove la mia infanzia ancora galleggiava, quasi mi atterrì. Come un’accusa. Un richiamo all’ordine. Io – non altri – sono quelle due sillabe.

Questo padre guarda al mondo adolescenziale con spirito d'osservazione e senso critico. Non giudica, ma riferisce con stile il vuoto nel quale questi giovani si muovono, la povertà di contenuti del loro mondo, la superficialità con cui lo affrontano. Loro sono "gli sdraiati", quelli perennemente pigri e demotivati, assorbiti nel loro ipermondo tecnologico, vivi solo dinanzi ai loro pseudoeroi o nella corsa all'acquisto dell'ultima felpa costosissima. Lo scenario è avvilente ed è tale ancor più nella misura in cui un adulto vuole capire e cercare una soluzione. La domanda che ci si pone è se esiste la possibilità di un punto di incontro e non resta che la speranza, tenace, che qualcosa possa cambiare.
La proposta di un'escursione in montagna, che il figlio si è sempre rifiutato di fare, lo induce a non mollare, a non arrendersi, a insistere, a sperare a oltranza. Il lieto fine è un po' quello di una favola moderna, che ritengo poco credibile ma efficace da un punto di vista narrativo. Forse c'è un barlume di speranza di recuperare questi ragazzi e probabilmente il solo modo è essere genitori che sappiano realmente esserlo, creativi nella loro funzione, presenti e non passivi.
Luz











 Fotografia di Mario Fermante

martedì 29 luglio 2014

Il talento e la felicità

Ciascuno trova la felicità quando trova il suo talento.
James Hillman

Io ho intesa questa frase così: quando e se (perchè non è detto che le circostanze mettano nelle condizioni di trovare la vera essenza di sè) si trova il proprio "talento", cioè si scopre cosa si è davvero (secondo il vecchio principio socratico del "conosci te stesso") e cosa si è in grado di fare in potenza e in atto (altro aspetto fondamentale), allora si raggiunge la felicità. Ma questa non intesa come generalmente si fa, la vedo intesa più come facevano gli epicurei e quindi la felicità come assenza del dolore. E anche questo, il dolore, è inteso come qualcosa di più generale. Non è il dolore fisico nè quello inteso come "dispiacere". E' il male di vivere che si intende per dolore. Questo aforisma lo sento molto congeniale. E' un fedele ritratto di me, credo.
Luz

lunedì 28 luglio 2014

Parenti serpenti

Finalmente dopo tre giorni di pulizie, spostamento di mobili, grandi manovre con scale e scalette per appendere quadri cercando di non infierire troppo sulle dita con  il piccolo martello tra fontane di sudore e piegamenti per scovare gli angoli che impietosi  nascondono, quasi a godere della tua fatica, ogni sorta di residuo stanziale e indefinito, mi abbandono sulla mia, guai a chi osa metterlo in dubbio, poltrona.Che meraviglia! Sono nel mio guscio, davanti alla tv, circondata dai miei libri preferiti,ai quali getto ogni tanto un'occhiata compiaciuta e soddisfatta di vederli in ordine, anche i miei cari e vecchi dischi in vinile giacciono tranquilli. Cosa fare? Accendo e proprio in quel momento sta iniziando il film:"Parenti  serpenti" del grande Mario Monicelli. E' una scommessa, non so se sortirà l'effetto desiderato. Ma con grande sorpresa, pensavo alla noia sinceramente, man mano che la storia si dipana il mio interesse aumenta, si concentra. Due anziani genitori invitano i loro quattro figli a trascorrere il S.Natale insieme con l'intento di capire chi è disposto ad occuparsi di loro in cambio dell'eredità. L'approccio iniziale tra tutti i personaggi è molto conformista, fatto di convenevoli, a modo loro ognuno cerca di piacere all'altro cercando di non mettersi in contrapposizione. Poi via via che si entra nel merito della storia le apparenze si sciolgono come neve al sole e i personaggi si rivelano: fragilità, incomunicabilità, frustrazione, meschinità e desiderio di ferire a dimostrazione dell'importanza del ruolo che ognuno ricopre in una sorta di gara psicologica. Una commedia feroce, dura, anche tragica. Ma meravigliosamente interpretata con intelligenza e sagacia. Mi sono divertita molto e alla fine ho pensato: scampato pericolo!                      Cris

Jane Eyre


Lessi “Jane Eyre” in un inverno di una ventina di anni fa, fra un esame universitario e l'altro. Adorai fin dalle prime pagine il personaggio di Jane. Rileggere “Jane Eyre” dopo 20 anni è come una scoperta piuttosto che una ri-scoperta. Le parole, la trama, la struttura di questo romanzo appaiono decisamente più affascinanti e "profondi" adesso. Me lo gusto lentamente, torno anche indietro a rileggere, mi isolo in questa Inghilterra vittoriana, seguendo i passi di una Jane nella quale mi piace identificarmi.
Romanzo di formazione che rientra in un filone tutto singolare, quello di una storia che si dipana su più anni, e che racconta la crescita, le esperienze di una giovane donna che cerca e trova un suo posto nel mondo. La forza di Jane è sovrumana, si resta come fulminati dalla sua abnegazione, dal coraggio, dalla lealtà a oltranza, dalla magnanimità. Altro grande personaggio è Rochester. Un peccatore, un uomo dedito alla prostituzione, padre disattento, amante delle libagioni con amici altrettanto libertini, sposato e che rinnega per ovvie ragioni quel matrimonio. Nonostante tutto ciò, conserva una certa signorilità, per questo Jane accetta di lavorare per lui. Il riscatto di Rochester sta tutto nell'incontro con Jane, e mi piace perché è lì che viene fuori l'animo nobile di quest'uomo, l'anima sua più vera: il suo credere ad una nuova possibilità. Il suo cambiare dinanzi al vero amore, o semplicemente all’essere per la prima volta amati.  
 Il fatto che Charlotte Bronte descriva Jane come non bella mi ha sempre portato verso l'idea che Charlotte vedesse se stessa in lei. Lo si capisce anche dal senso del divino che è in Jane. E Charlotte era figlia di un religioso, un pastore.
Perché Jane è indimenticabile? Perché profondamente umana. Perché rappresenta e concretizza la forza che è in ogni donna che voglia giungere ad autoaffermarsi senza scendere a nessun compromesso. “Non sono un uccello, e nessuno può ingabbiarmi”, tentando una traduzione, è la frase che Jane rivolge a Rochester ribadendo risolutamente la forza della sua personalità.
Interessante un passaggio di Virginia Woolf sul confronto fra i due grandi romanzi delle sorelle Bronte.
 "Cime tempestose è un libro più difficile da capire di Jane Eyre, perché Emily era più poeta di Charlotte. Scrivendo, Charlotte diceva con eloquenza e splendore e passione «io amo», «io odio», «io soffro». La sua esperienza, anche se più intensa, è allo stesso livello della nostra. Ma non c'è «io» in Cime tempestose. Non ci sono istitutrici. Non ci sono padroni. C'è l'amore, ma non è l'amore tra uomini e donne. Emily si ispirava a una concezione più generale. L'impulso che la spingeva a creare non erano le sue proprie sofferenze e offese. Rivolgeva lo sguardo a un mondo spaccato in due da un gigantesco disordine e sentiva in sé la facoltà di riunirlo in un libro. [...] Il suo è il più raro dei doni. Sapeva liberare la vita dalla sua dipendenza dai fatti; con pochi tocchi indicare lo spirito di una faccia che non aveva più bisogno di un corpo; parlando della brughiera far parlare il vento e ruggire il tuono". 
Luz