giovedì 7 agosto 2014

Gli sdraiati

 Quando ho cominciato questo libro mi trovavo sulla spiaggia di Barceloneta, in Spagna. Avevo bisogno di un piccolo libro da portare con me in vacanza e da cominciare, nel caso mi fossi trovata a dover riempire il tempo. Mi trovo dinanzi al racconto, immediato e senza fronzoli, di un padre che dinanzi al caos del figlio adolescente lascia intendere subito di non essere assolutamente capace di farvi fronte. E' un padre divorziato e questo figlio condivide la sua casa in qualche fine settimana in cui il ragazzo non ha di meglio da fare. Sulle prime, in questa lettrice in vacanza all'estero sotto sole di luglio monta un senso di fastidio. Mi ritrovo a pensare che si tratti dell'ennesima storia di questi genitori contemporanei, inabili al loro mestiere, privi di talento, educatori mancati. Ci sono tutti gli ingredienti che occorrono per costruire la storia di un uomo di mezza età che fa i conti coi propri sensi di colpi e l'incapacità di instaurare un dialogo col proprio figlio. Ma io stimo troppo Michele Serra per credere che si tratti semplicemente di questo. E difatti, man mano che ci si addentra nella storia, si scopre che si tratta di una provocazione alla riflessione.

Sentirmi chiamare papà, e da lontano, e in quella esposta porzione del mondo, in quella incerta dimensione del tempo dove la mia infanzia ancora galleggiava, quasi mi atterrì. Come un’accusa. Un richiamo all’ordine. Io – non altri – sono quelle due sillabe.

Questo padre guarda al mondo adolescenziale con spirito d'osservazione e senso critico. Non giudica, ma riferisce con stile il vuoto nel quale questi giovani si muovono, la povertà di contenuti del loro mondo, la superficialità con cui lo affrontano. Loro sono "gli sdraiati", quelli perennemente pigri e demotivati, assorbiti nel loro ipermondo tecnologico, vivi solo dinanzi ai loro pseudoeroi o nella corsa all'acquisto dell'ultima felpa costosissima. Lo scenario è avvilente ed è tale ancor più nella misura in cui un adulto vuole capire e cercare una soluzione. La domanda che ci si pone è se esiste la possibilità di un punto di incontro e non resta che la speranza, tenace, che qualcosa possa cambiare.
La proposta di un'escursione in montagna, che il figlio si è sempre rifiutato di fare, lo induce a non mollare, a non arrendersi, a insistere, a sperare a oltranza. Il lieto fine è un po' quello di una favola moderna, che ritengo poco credibile ma efficace da un punto di vista narrativo. Forse c'è un barlume di speranza di recuperare questi ragazzi e probabilmente il solo modo è essere genitori che sappiano realmente esserlo, creativi nella loro funzione, presenti e non passivi.
Luz











 Fotografia di Mario Fermante

5 commenti:

  1. Parte 1
    Ci sono più figli che genitori e ci sono più case mute e spoglie che famiglie ridenti. Si nasce non per essere figli di qualcuno ma per giacere tra le cure di qualcuno: senza nome, senza indirizzo, senza identità certa…si cerca solo un’appartenenza emotiva, non sociale. Questa arriva dopo, anzi viene stabilita dopo da convinzioni, fissazioni, adeguamenti. Ci sdraiamo con facilità e rigiriamo su di noi divenendo perno, fulcro e orbita di noi stessi. I figli autoreferenziali! Si nasce figli e si vorrebbe rimanere in questo status quo di adagio e pigrizia. Il tempo incalza e ti rende adulto, ora sei un figlio adulto che tiene per sé il privilegio di essere considerato ancora figlio portando con te, ovunque vai, il passaporto della tua maturità di uomo. Si nasce figli per rimanere figli e non per diventare genitori, però alcuni lo diventano. Diventiamo padre e madre con la convinzione di essere stati buoni figli sicchè saremo ottimi genitori. Madornale errore! Siamo ancora sdraiati, siamo tutti sdraiati sotto il cielo della vita: guardiamo ed osserviamo quel che non ci riguarda e ne stiamo distanti, ascoltiamo quel che non capiamo e non ci impegnamo nella realizzazione della sua comprensione, studiamo come alieni i ragazzi altrui, credendo che i nostri siano uguali a noi e quindi perfettamente “riusciti”. Esistono padri che vogliono dei burattini che li seguano a comando e padri che si arrendono all’evidenza della diversità senza trovare un contatto. Esistono madri che non si riconoscono nelle proprie figlie ed altre che ne seguono i passi da vicino abbandonandosi al loro fianco la notte per cullarne il disagio della crescita. Esistono così tanti diversi padri e diverse madri da far credere che ogni figlio possa essere seguito e incoraggiato ed ogni figlia accompagnata ed aiutata finché ne hanno bisogno o finché ne sentono la necessità. I figli di oggi sono complessi, come quelli di ieri. Ma questi figli, nati da una generazione nuova che della precedente non ha mantenuto nemmeno i ricordi, sono vittime di se stessi e del proprio cinico perdurare in uno stato di abbandono. Sembra che siano essi stessi con le proprie mani a creare intorno a sé dei lager: li vediamo muoversi in stato cadaverico indistintamente, senza nessun guizzo vitale negli occhi che ne indichi la speranza per il futuro, immersi nel degrado della loro apatia e del disinteresse per attività formative, in perenne ipossia del cervello che ben presto si generalizza all’intero corpo. Muore il corpo quando non lo si nutre? Cede l’uomo quando gli viene offerta solo l’inedia. E così avviene per lo spirito se non attinge ad un’alimentazione adeguata, sana e corretta. Genitori e figli sono identici: patiscono le stesse scelte sbagliate prese in momenti differenti, si adagiano sui propri limiti convinti di non poterli superare e si adeguano a ciò che incontrano senza ricercare uno scontro chiarificatore ed educativo. (segue sotto seconda parte del commento...)

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  2. Parte 2
    Chi sono allora i veri sdraiati? I ragazzi, figli di questi anni indolenti e trasparenti o i genitori inadeguati a un giusto approccio con loro e incapaci di agire su ogni fronte, inabili persino di scegliere il fronte su cui schierarsi? L’identità delle figure è confusa. Chi ne sa di più, chi afferra la vita e la domina, chi non ha paura di camminare in avanti pur di proseguire? Siamo in presenza di generazioni a confronto che non si sfidano, che non entrano in competizione per superarsi a vicenda, per rilevare il proprio diritto di affermazione e la convinzione che il futuro appartenga a chi lo vede e lo avvicina nei personali desederi di crescita. Quel che si è perso è quel che si è sempre sperato, ossia il tempo della reciproca conoscenza nella scoperta di sé attraverso le differenze dell’altro. Figli e genitori sono parimenti sdraiati e parimenti colpevoli. In passato lo scontro generazionale era composto da due elementi diversi ma legati: i maturi ed i futuri maturi. Oggi siamo tutti immaturi come genitori, timorosi di prendere qualunque iniziativa, e come figli insofferenti a qualsiasi coinvolgimento esterno che richieda impegno. Non è solo la mancanza di dialogo che ci penalizza, è soprattutto la paura di affrontare l’esito di questo dialogo che ci rende inerti e ci priva della fede che qualcosa di nuovo e migliore possa verificarsi nel rapporto genitore-figlio. Non si può cambiare un figlio con un altro e non si può richiedere un altro genitore, ma si può saggiamente anelare ad un atteggiamento propositivo da parte di entrambi. Facile a dirsi? Non è facile nemmeno immaginarlo. Passiamo i primi mesi della vita dei nostri figli ad insegnare loro a camminare e a parlare, per poi trascorrere i seguenti anni a dire loro di sedersi, tacere ed ubbidire. Siamo disfunzionali sin dall’inizio! Non sai mai come sarà tuo figlio. Di sicuro sai che per te è un estraneo in casa, motivo per cui ne hai timore ed ammirazione durante la sua crescita. “Ciascuno è figlio della propria anima”, secondo Henri Frédéric Amiel. Allora abbiamo due anime? La nostra e quella di chi è nato da noi? Ne abbiamo una sola ma questa non smette mai di accarezzare quell’altra che le somiglia. Non si governano le anime, si accompagnano finché si è capaci e finchè si è meritevoli di essere genitori di ragazzi in crescita che meritano attenzione non in quanto figli ma in quanto “nati”. Tutti i genitori fanno del male ai propri figli, pur non avendone l’intenzione. E’ il dono dell’essere genitore ed è condanna insieme. I giovani conservano le impronte di quanti li sfiorano o li toccano come se fossero vetro: alcuni genitori li sporcano e basta, altri li segnano in piccole incrinature, altri ancora li frantumano in piccoli pezzi che si perdono, altri ne hanno riguardo, attenzione e dedizione. Non in quanto figli ma in quanto “nati” li si deve così tanto amare da correre il rischio di educarli.

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    1. Valeria, grazie per questi preziosi contributi, che meglio chiariscono questo difficile universo di rapporti fra genitori e figli. E' evidente che non sono facili per nessuno ed è evidente che il genitore perfetto non esista, che si commettono errori e che il "tiro" vada corretto ogni giorno. Il conflitto nasce spontaneamente, fisiologicamente direi, anzitutto per lo scarto generazionale, giacchè da sempre due generazioni a confronto si interfacciano in modo non agevole. Se ricordo io stessa che non poche discussioni affrontai nella mia prima adolescenza soprattutto con mio padre, poiché ero simile a lui e tendevamo a litigare. E ricordo anche di avere avuto voglia di scappare di casa (!) o di lanciare anatemi e minacce ripromettendomi di lasciarli quando sarei stata grande. Erano altri tempi, noi figli non avevamo le tantissime cose che i figli posseggono adesso, e i nostri desideri erano simili alle generazioni precedenti: uscire con gli amici e tirare tardi, autodeterminarci con una bella felpa firmata, ecc. Inutile illudersi che il conflitto non venga mai a concretizzarsi, sarebbe un paradosso. Quello che mi stupisce e mi fa rabbia del mondo genitoriale attuale è da un lato l'inadeguatezza di tantissimi a essere buoni educatori, dall'altra, nel caso di una effettiva intelligenza in chi genera, le innumerevoli volte in cui subentra la paura di dire di "no", come tu scrivi, la paura dell'esito, dello scontro successivo. Questa viltà serpeggiante e diseducativa, che genera nei figli una perdita di orientamento, di punti di riferimento, e li getta nella più avvilente solitudine. Non è un caso che proprio i figli più vezzeggiati, coccolati, ai quali si permette di tutto, siano quelli peggio riusciti, scontrosi, disorientati e persi. C'è una speranza, come Michele Serra si chiede nel suo libro? Lo scenario non è incoraggiante. Può esserlo il fatto che al di fuori della famiglia possono trovarsi a volte figure di riferimento più efficaci e presenti: un amico, un insegnante. E questo, probabilmente, in una società così devastata come quella odierna, è già tanto.
      Luz

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  3. Più che un romanzo trattasi di un monologo verboso virante verso l'analisi sociologica del difficile rapporto tra un padre cinquantenne e divorziato ed un figlio diciassettenne e scapestrato. Il gap generazionale genitori-figli, presente in tutte le epoche ed in tutte le società, viene rivisitato da Michele Serra alla luce dei tempi moderni, multitasking ed ipertecnologici. In particolare viene posta rilevanza sia sulla sciattezza e mediocrità dei giovani moderni vittime, loro malgrado, della società capitalistica globale che fa di loro utenti decerebrati privi di senso critico e immersi in sequenze trasversali e superficiali di conoscenze (bella la scena del ragazzo "sdraiato" sul divano con i-pod, tv, i-phone, pc e libro di chimica), sia sull'attuale generazione dei genitori (definita da Serra "dei dopopadri") dimidiati tra l'educazione dei figli e il tentativo di "continuare a vivere la propria vita".

    Il padre (in realtà è lo scrittore che parla) è consapevole della profonda mutazione tra le due generazioni e la vede come un fallimento dell'ideologia sessantottina di libertà trasformatasi in mancanza di rispetto verso qualsivoglia autorità. In pratica sa benissimo di non essere - come molti genitori attuali - un padre-padrone, anzi sa di aver lottato per impedire che la mannaia dell'autorità si abbattesse sull'educazione del figlio, solo che si rende conto che il suo metodo educativo (che lui chiama relativismo pedagogico) ha fallito i suoi obiettivi, in quanto la libertà concessa al figlio, contrariamente a quanto sosteneva Rousseau ne "L'Emilio", si è trasformata in permissivismo, in mancanza di rispetto, in maleducazione, in ignavia. In pratica, secondo lo scrittore, i giovani sdraiati moderni sono attenti solo alla "propria porca presenza" nel mondo, il cui simbolo è rappresentato dal culto del fisico, dalla vita notturna, dal risveglio pomeridiano, dai tatuaggi.

    Aleggia sul romanzo (meglio saggio), un pessimismo neanche troppo latente che si incarna nell'amara considerazione del padre di essere l'ultimo anello della catena, di non avere un epigono cui lasciare la propria eredità culturale-morale-psicologica. Simbolo di questa profonda incrinatura sono i continui inviti del padre al figlio di salire sul Colle del Nasca (chiaro riferimento alla petrarchesca ascesa sul Monte Ventoso), perchè in precedenza il padre aveva fatto lo stesso con lui; insomma un tentativo simbolico di passaggio di consegne nel solco della tradizione.

    Il neo di questo libro è quello di generalizzare le situazioni e categorizzare i personaggi: è vero che oggi è in atto una profonda trasformazione della società che investe soprattutto LA COMUNICAZIONE (a tal proposito risulta utile leggere il saggio "I barbari" di Baricco tanto ottimo come saggista quanto a volte deprecabile come scrittore) e che una parte dei giovani e dei genitori si comporta come descritto dall'autore, ma è altrettanto vero che c'è un'altra parte che non si rispecchia sicuramente nelle parole dello scrittore, ovvero non tutti i ragazzi sono sdraiati, non tutti si svegliano alle 15 del pomeriggio, non tutti i genitori sono divorziati, non tutti i padri sono così permissivi.

    Altro difetto del libro è quello di attribuire le colpe della situazione in massima parte ai figli (o ai giovani che poi è lo stesso), dimenticando che il modello di società che viene loro proposto è in gran parte colpa dei padri; solo nel finale c'è una parziale apertura con l'ammissione che le generazioni precedenti hanno saccheggiato il mondo e sono restie a farsi da parte perchè il nuovo - giusto o sbagliato - ne prenda il posto.

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  4. Luigi, grazie per questa tua recensione. Confermi quanto io stessa avevo accennato nell'articolo: il padre si pone delle domande e si attribuisce parte della responsabilità del vuoto in cui vaga suo figlio.
    Quello che mi è piaciuto di questo piccolo libro, che si presenta come un monologo come deduci tu, è che offre la possibilità di un senso critico, oggi praticamente raro, e forse difficile per questi tempi in cui regna l'effimero. Il senso critico investe in ultima analisi i padri, inadeguati perchè provenienti da una generazione in opposizione a quella dei propri genitori, una gioventù del passato che credeva avrebbe saputo fare di meglio, auto-programmarsi come una generazione che non avrebbe commesso gli stessi errori. E in ciò il gap generazionale si è come allargato a dismisura, perchè il fallimento sta tutto nel cercare di diminuire le distanze, nel porsi sullo stesso piano.
    Luz

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